Negli ultimi trent’anni il numero di ricerche scientifiche che hanno mostrato gli effetti straordinari della meditazione di mindfulness ha avuto una crescita esponenziale: un rilassamento profondo in piena coscienza, che non ottunde l’attenzione, bensì la potenzia; un maggior controllo dei circuiti neuroendocrini e in modo particolare di quello dello stress; una maggiore coerenza cerebrale cioè una migliore comunicazione tra i due emisferi, una maggiore capacità di adattamento ai cambiamenti della vita. Anche sul versante psicologico e psicoterapeutico la meditazione di mindfulness ha degli effetti rilevanti: promuove un atteggiamento non giudicante verso sé stessi e gli altri; aiuta le persone ad adattarsi in situazioni incerte, instabili e stressanti e le stimola a prendere contatto con se stesse e con la propria coscienza; sviluppa la responsabilità personale, la compassione, l’empatia e il senso di accettazione verso la realtà e previene i comportamenti impulsivi e compulsivi e il rimuginio patologico (fattore che può condurre chi è predisposto agli episodi depressivi). Un’altra area di ricerca, che sta alimentando l’interesse nella mindfulness, è quella sulla neuro-plasticità (cioè la capacità della mente di cambiare il cervello) che utilizza metodi di neuroimaging (PET, Risonanza Magnetica Nucleare). Sappiamo, infatti, che “i neuroni che si attivano insieme, si legano tra loro” (Hebb, 1949, in Siegel, 2007) e che l’attività mentale della meditazione attiva specifiche aree del cervello. Sara Lazar e altri (2005) hanno dimostrato che, dopo anni di pratica meditativa, le aree del cervello associate all’introspezione e all’attenzione diventano più spesse. Richard Davidson e altri (2005) dell’Università del Wisconsin hanno riscontrato che, dopo solo otto settimane di training di mindfulness, aumenta l’attività nella corteccia prefrontale sinistra. L’attivazione di quest’area è associata alle sensazioni di benessere come pure l’aumento dell’attività metabolica in questa parte del cervello è correlato alla forza della risposta immunitaria al vaccino contro l’influenza.
Le evidenze empiriche, derivate da studi scientifici, stanno validando ciò che i meditatori avevano da tempo ipotizzato, e cioè che allenare la mente modifica il cervello (Begley, 2007) e ora cominciamo a vedere dove e quanto questo cambiamento sia possibile.
A partire dagli anni ’80 inoltre numerose ricerche hanno evidenziato l’efficacia clinica della meditazione e delle prospettive basate sulla mindfulness, sia nei confronti di patologie psichiatriche (come la depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, abuso di sostanze, etc.) che di disturbi di tipo medico (oncologia, psoriasi, dolore cronico) permettendo lo sviluppo di protocolli e modelli terapeutici validati di provata efficacia tra i quali la Mindfulness-based Stress Reduction (MBSR), la Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), la Dialectical Behaviour Therapy, l’Acceptance and Commitment Therapy e la Compassionate Mind Therapy.
Tali modelli terapeutici si configurano per lo più in interventi con un formato strutturato e di gruppo, ma possono essere anche adattati e implementati in una modalità individuale.
Inoltre, i cambiamenti, che avvengono nel cervello quando siamo emotivamente in sintonia con i nostri stati interni durante la meditazione, sembrano essere correlati con quelle aree del cervello che sono attive quando ci sentiamo in connessione con gli altri (Siegel, 2007), il che suggerisce che le persone che praticano la meditazione basata sulla mindfulness possono creare una migliore sintonia ed empatia nel rapporto con l’altro.
La meditazione addestra e sviluppa le capacità attentive e aumenta la capacità di raccogliere sottili segnali percettivi nell’ambiente, e di prestare attenzione a ciò che accade piuttosto che lasciare la mente vagare altrove. Questo comporta ad esempio che nella conversazione con un’altra persona, il meditatore sarà più empatico, poiché egli può prestare un’attenzione più intensa a ciò che l’altra persona sta facendo e dicendo, e può raccogliere meglio i messaggi nascosti che l’altro sta inviando.
Per esempio, i meditatori, raffrontati ai non meditatori, si sono rivelati significativamente meno ansiosi, registrano minori disturbi psicosomatici, più stati d’animo positivi, e sono meno nevrotici. I meditatori mostrano inoltre una indipendenza crescente dai segnali situazionali, vale a dire che possiedono una zona interiore di controllo; sono più spontanei, hanno una maggiore capacità di manifestare contatto, si accettano di più, e hanno una più alta considerazione di sé; sono più abili a entrare in sintonia con un’altra persona e mostrano meno paura della morte. In generale queste ricerche evidenziano che la meditazione riduce gli stati negativi mentre aumenta quelli positivi. In uno studio inglese, nei pazienti allenati in questi metodi è stata riscontrata una pressione sanguigna più bassa ancora quattro anni dopo che l’allenamento era terminato. I benefici per i pazienti affetti da malattie cardiache vanno molto al di là del controllo della pressione sanguigna: si è trovato che il rilassamento aiuta ad alleviare la sofferenza da angina e aritmia e ad abbassare i livelli di colesterolo nel sangue. Jon Kabat-Zinn (1985) trovò che un programma di meditazione basato sulla mindfulness (MBSR), diminuiva la dipendenza dagli antidolorifici e diminuiva il livello di dolore nei sofferenti cronici. Le cause del dolore in particolare variavano dal mal di schiena ai diversi tipi di mal di testa (emicrania e cefalee). Quattro anni dopo che il training era finito, i benefici permanevano ancora. (vedi per approfondimenti anche Goleman: La forza della meditazione – RIZZOLI 1997).
Articolo scritto da Fabrizio Didonna su ISIMIND